Antonio Canova, appena tornato a Roma alla fine di aprile 1795, fece dell’opera un piccolo bozzetto in cera e stese la proposta del contratto di acquisto: l’artista si impegnava a fare prima il modello in gesso (come sempre faceva per le sue opere, da almeno una quindicina d’anni) e poi, entro tre anni, avrebbe tradotto il gesso nel marmo “alto palmi romani dodici in tredici” (che voleva dire pressappoco una statua colossale alta quasi tre metri e mezzo). Da parte sua, Don Onorato si impegnava a versare la incredibile somma pattuita di tremila zecchini d’oro, da versare in tre rate: “un terzo subito, un terzo a metà dell’opera e il rimanente da saldarsi al compimento".
A giugno, però, Canova non poté più occuparsi dell’opera perché dovette recarsi a Venezia dove collocò, all’Arsenale, il Monumento all’Ammiraglio Emo: nella città lagunare mostrò ad alcuni amici quel bozzetto in cera della statua di Ercole e Lica, ricevendone pareri lusinghieri. A luglio, da Venezia, lungo il Terraglio, arrivò a Treviso e continuò per la strada Feltrina fino a Possagno: voleva recarsi al cimitero del suo paese natale per portare un fiore alla nonna, Caterina Ceccato, morta il 9 febbraio precedente mentre lui era a Roma.
Alla fine di luglio, Canova era già a Padova per poi tornare a Venezia dove, a settembre, il Senato Veneto lo informò di avergli assegnato per il Monumento Emo una pensione vitalizia di 100 ducati d’argento mensili. Ad ottobre 1795, Canova era già rientrato a Roma per dedicarsi alle numerose opere che gli avevano ordinato, tra cui, appunto, l’Ercole e Lica: dell’enorme statua, egli fece prima l’argilla, poi iniziò il modello in gesso che terminò solo all’inizio di aprile dell’anno dopo, il 1796.
Quindi tutto lasciava prevedere che quella statua gigantesca sarebbe stata finita molto presto. E invece, per un anno e mezzo, Canova praticamente non ci mise più mano. Eppure il blocco, l’enorme blocco di marmo, era già stato trainato dalle alpi Apuane, giù fino a Viareggio e da lì, via Tirreno, fino a Roma lungo il Tevere.
Appena si cominciò a sgrossarlo, si capì subito che c’era qualcosa che non andava: i marmorari che avevano l’occhio esperto di marmi e pietre, scuotono il capo. Accorre Canova che osserva il blocco e si accorge che quella pietra non è delle migliori. E lo confida, infatti, al suo amico, Daniele degli Oddi, in una lettera del 1798: “il masso che mi è arrivato è cattivo, ed io voglio farlo in un altro migliore”. Poteva succedere che un blocco di marmo risultasse difettato, scheggiato, crepato, annerito, venato, persino marcio. E allora bisognava trovare un altro pezzo di marmo, migliore del precedente, andarlo a scegliere su nelle cave di Carrara, portarlo fino a Roma. Ci sarebbero voluti anni per andare avanti con quella statua colossale.
E poi, e poi c’era dell’altro. C’era che Napoleone era arrivato in Italia, già nel 1796, a diffondere le idee rivoluzionarie nelle nostre regioni. E non era una lezione o un’accademia: in Italia, Napoleone era arrivato con le sue armate.
A giugno, però, Canova non poté più occuparsi dell’opera perché dovette recarsi a Venezia dove collocò, all’Arsenale, il Monumento all’Ammiraglio Emo: nella città lagunare mostrò ad alcuni amici quel bozzetto in cera della statua di Ercole e Lica, ricevendone pareri lusinghieri. A luglio, da Venezia, lungo il Terraglio, arrivò a Treviso e continuò per la strada Feltrina fino a Possagno: voleva recarsi al cimitero del suo paese natale per portare un fiore alla nonna, Caterina Ceccato, morta il 9 febbraio precedente mentre lui era a Roma.
Alla fine di luglio, Canova era già a Padova per poi tornare a Venezia dove, a settembre, il Senato Veneto lo informò di avergli assegnato per il Monumento Emo una pensione vitalizia di 100 ducati d’argento mensili. Ad ottobre 1795, Canova era già rientrato a Roma per dedicarsi alle numerose opere che gli avevano ordinato, tra cui, appunto, l’Ercole e Lica: dell’enorme statua, egli fece prima l’argilla, poi iniziò il modello in gesso che terminò solo all’inizio di aprile dell’anno dopo, il 1796.
Quindi tutto lasciava prevedere che quella statua gigantesca sarebbe stata finita molto presto. E invece, per un anno e mezzo, Canova praticamente non ci mise più mano. Eppure il blocco, l’enorme blocco di marmo, era già stato trainato dalle alpi Apuane, giù fino a Viareggio e da lì, via Tirreno, fino a Roma lungo il Tevere.
Appena si cominciò a sgrossarlo, si capì subito che c’era qualcosa che non andava: i marmorari che avevano l’occhio esperto di marmi e pietre, scuotono il capo. Accorre Canova che osserva il blocco e si accorge che quella pietra non è delle migliori. E lo confida, infatti, al suo amico, Daniele degli Oddi, in una lettera del 1798: “il masso che mi è arrivato è cattivo, ed io voglio farlo in un altro migliore”. Poteva succedere che un blocco di marmo risultasse difettato, scheggiato, crepato, annerito, venato, persino marcio. E allora bisognava trovare un altro pezzo di marmo, migliore del precedente, andarlo a scegliere su nelle cave di Carrara, portarlo fino a Roma. Ci sarebbero voluti anni per andare avanti con quella statua colossale.
E poi, e poi c’era dell’altro. C’era che Napoleone era arrivato in Italia, già nel 1796, a diffondere le idee rivoluzionarie nelle nostre regioni. E non era una lezione o un’accademia: in Italia, Napoleone era arrivato con le sue armate.