Secondo episodio della blog serie su Vincent van Gogh.
La serie completa è su What's on?, il blog della Galleria Nazionale.
‘La vita è una malattia terminale’, sostiene Julian Schnabel, artista, anzi pittore di fama internazionale, arrivato al successo negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, e che all’apice di una carriera baciata da quotazioni record sul finire degli anni ’90, decise di intraprendere l’attività non alternativa, bensì collaterale, di regista cinematografico. Il suo primo film, uscito nel 1996, fu non a caso dedicato a Jean-Michel Basquiat, come lui pittore, folgorante meteora dell’arte newyorchese scoperta da Andy Warhol (il cui ruolo Schnabel affidò a David Bowie), scomparso a soli 27 anni. 22 anni dopo, presentato alla 75ma Mostra del Cinema di Venezia, ecco il suo quinto film, At Eternity’s Gate (Sulla soglia dell’eternità), che omaggia nuovamente un pittore, colpito anch’egli dalla ‘malattia della vita’ e morto a 37 anni, tra gli artisti più conosciuti ed amati di tutti i tempi: Vincent Van Gogh. Ad interpretare il tormentato artista olandese, già portato sullo schermo da Kirk Douglas nello splendido Brama di vivere diretto da Vincente Minnelli nel 1956, Julian Schnabel ha chiamato Willem Dafoe, che dal Lido si è portato a casa la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile.
Caso più che singolare della Storia del Cinema, Schnabel è l’unico regista vivente ad esercitare, con il considerevole successo che si diceva, l’attività di artista/pittore. Naturalmente ogni regista cinematografico è un po’ anche artista, perché ricrea sullo schermo un mondo di colori, forme e volumi che connotano il film spesso altrettanto, a volte anzi più che la sua stessa trama. In Brama di vivere, Minnelli chiese ai suoi meravigliosi scenografi di ricreare ambienti e paesaggi affinché suggerissero agli spettatori credibili modelli per le tele di Van Gogh. Schnabel va ancora più in là, e disinteressandosi all’idea di realizzare l’ennesima ‘biografia’ cinematografica, decide insieme al proprio sceneggiatore, il mitico Jean-Claude Carrière, di usare il cinema per risalire direttamente al gesto pittorico di Vincent. Insieme stavano visitando, qualche anno fa, la mostra ‘Van Gogh/Artaud: il suicidato della società’ nel parigino Musée d’Orsay, ispirata a un libro di Antonin Artaud in cui si accennava al misterioso suicidio dell’artista. Davanti ad uno dei molti autoritratti esposti, sorvolando su ogni questione umana e sentimentale che riguardasse un soggetto così psichicamente compromesso, Schnabel fece avvicinare Carrière fino a pochi centimetri dal dipinto e gli fece notare come per dipingere l’iride di un occhio Van Gogh avesse usato tre blu diversi, dal cobalto all’azzurro ceruleo. Carrière sostiene che da quel momento, alla tenera età di 82 anni (tanti ne aveva quando visitò la mostra al d’Orsay), il suo modo di apprezzare la pittura è radicalmente cambiato: è in quel dettaglio tecnico, in quell’uso esasperato del colore, in quelle pennellate nervose che, gli fece comprendere ‘da pittore’ Julian Schnabel, va ricercata l’origine, o almeno la concreta espressione artistica dell’instabilità mentale e dell’irrequieta ipersensibilità di Van Gogh.
Quanto all’ipotesi, rigettata dalla comunità internazionale dei critici, secondo cui il colpo di pistola che lo condusse alla morte fu provocato dalla lite di due ragazzi che incidentalmente lo colpirono allo stomaco mentre era intento a dipingere en plein air, e fuggirono terrorizzati che i loro genitori venissero a saperlo, viene scelta da Schnabel a conclusione del film non tanto per sostenere che sia reale, quanto per suggerire ulteriori sfumature delle pulsioni suicide di Vincent (non nuovo a tentativi del genere, comprese altre manifestazioni di autolesionismo, come l’orecchio mozzato), che scagionando i ragazzi e assumendosi la paternità del gesto, avrebbe approfittato di un evento originato casualmente dal proprio tragico e traballante destino. Traballante – forse troppo – è anche la macchina da presa gestita dal direttore della fotografia del film, Benoît Delhomme, il quale tuttavia non ha che assecondato il puntuale desiderio di Schnabel: quello di trasmettere, con le riprese a mano, idiosincratiche e dalle traiettorie disordinate, il caotico disequilibrio della mente di Van Gogh, capace di sprofondare velocemente nella più atra depressione dopo l’euforica ebbrezza davanti all’esplosione di luce di un sole al tramonto, di un campo di grano, o di un cielo stellato.
La scelta registica e artisitica di Schnabel è stata, da artista e pittore a sua volta, esattamente quella di reimmedesimarsi in Van Gogh, senza la presunzione e l’arroganza di sostituirsi a lui, ridipingendo egli stesso i numerosi dipinti che si vedono nel film, impostati e preparati dalla pittrice francese Edith Baudrand, poi da lui rifiniti e terminati, trovando una felice corrispondenza tra il gesto registico e lo stesso gesto artistico dell’autore del film. Schnabel ha addirittura impartito a Willem Dafoe alcune lezioni di pittura, perché fosse lui stesso a maneggiare i pennelli sulla tela, come nella prima sequenza del ritratto al proprio paio di scarpe, per rappresentare più realisticamente lo sforzo della creazione artistica senza ricorrere alle consuete finzioni del cinema, che d’abitudine alterna campi e controcampi in cui sono diversi gli ‘attori’ che danno il volto all’artista (o, per esempio, a un pianista) da altri inquadrati soltanto all’altezza delle mani. Schnabel approfondisce inoltre, partendo sempre dall’aspetto visuale ed evidente delle materiche, nervose e abbondanti pennellate di Van Gogh, il suo legame con la Storia dell’Arte che lo ha preceduto, nella sequenza in cui, in visita alla Grande Galerie del Louvre, Vincent esamina le tele di tre artisti, scelti secondo un preciso criterio critico, Delacroix, Veronese e il connazionale Frans Hals: è negli audaci colpi di pennello del grande olandese del XVII secolo, proprio per questo considerato, forse un tantino campanilisticamente, da alcuni critici fiamminghi il vero padre dell’arte moderna, che Schnabel sembra volerci indicare le radici della grande rivoluzione di Van Gogh e delle sue pennellate dense, istintive, fiammeggianti, frenetica espressione di una viscerale e indisciplinata vitalità artistica.
Il cast del film è, come sempre nel caso di Schnabel, una corona di grandi star dello schermo: Oscar Isaac è Paul Gauguin, Emmanuelle Seigner è Madame Ginoux, ovvero l’Arlesiana, ritratta sei volte da Vincent (una delle sei versioni è in collezione alla Galleria Nazionale di Roma), mentre Mads Mikkelsen e Mathieu Amalric (quest’ultimo già diretto da Schnabel in Lo scafandro e la farfalla), recitano nei rispettivi ruoli di un uomo di chiesa e del celebre Dottor Gachet: per non ridurre la loro partecipazione a semplici e troppo brevi cammei, Schnabel e Carrière (Sulla soglia dell’eternità è sceneggiato a sei mani anche insieme a Louise Kugelberg, che ne firma anche il montaggio) affidano ai due attori due dialoghi che nell’economia generale risultano eccessivamente dilatati e finiscono per rallentare e appesantire l’impatto narrativo di una visione già resa difficoltosa e faticosa dalla traballante cinepresa digitale di Benoît Delhomme: ma ‘mai abbastanza’, come sul set teneva a sottolineargli Julian Schnabel, perché ‘il nostro destino è ballerino: dunque una macchina da presa non ballerà mai abbastanza’.
La serie completa è su What's on?, il blog della Galleria Nazionale.
‘La vita è una malattia terminale’, sostiene Julian Schnabel, artista, anzi pittore di fama internazionale, arrivato al successo negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, e che all’apice di una carriera baciata da quotazioni record sul finire degli anni ’90, decise di intraprendere l’attività non alternativa, bensì collaterale, di regista cinematografico. Il suo primo film, uscito nel 1996, fu non a caso dedicato a Jean-Michel Basquiat, come lui pittore, folgorante meteora dell’arte newyorchese scoperta da Andy Warhol (il cui ruolo Schnabel affidò a David Bowie), scomparso a soli 27 anni. 22 anni dopo, presentato alla 75ma Mostra del Cinema di Venezia, ecco il suo quinto film, At Eternity’s Gate (Sulla soglia dell’eternità), che omaggia nuovamente un pittore, colpito anch’egli dalla ‘malattia della vita’ e morto a 37 anni, tra gli artisti più conosciuti ed amati di tutti i tempi: Vincent Van Gogh. Ad interpretare il tormentato artista olandese, già portato sullo schermo da Kirk Douglas nello splendido Brama di vivere diretto da Vincente Minnelli nel 1956, Julian Schnabel ha chiamato Willem Dafoe, che dal Lido si è portato a casa la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile.
Caso più che singolare della Storia del Cinema, Schnabel è l’unico regista vivente ad esercitare, con il considerevole successo che si diceva, l’attività di artista/pittore. Naturalmente ogni regista cinematografico è un po’ anche artista, perché ricrea sullo schermo un mondo di colori, forme e volumi che connotano il film spesso altrettanto, a volte anzi più che la sua stessa trama. In Brama di vivere, Minnelli chiese ai suoi meravigliosi scenografi di ricreare ambienti e paesaggi affinché suggerissero agli spettatori credibili modelli per le tele di Van Gogh. Schnabel va ancora più in là, e disinteressandosi all’idea di realizzare l’ennesima ‘biografia’ cinematografica, decide insieme al proprio sceneggiatore, il mitico Jean-Claude Carrière, di usare il cinema per risalire direttamente al gesto pittorico di Vincent. Insieme stavano visitando, qualche anno fa, la mostra ‘Van Gogh/Artaud: il suicidato della società’ nel parigino Musée d’Orsay, ispirata a un libro di Antonin Artaud in cui si accennava al misterioso suicidio dell’artista. Davanti ad uno dei molti autoritratti esposti, sorvolando su ogni questione umana e sentimentale che riguardasse un soggetto così psichicamente compromesso, Schnabel fece avvicinare Carrière fino a pochi centimetri dal dipinto e gli fece notare come per dipingere l’iride di un occhio Van Gogh avesse usato tre blu diversi, dal cobalto all’azzurro ceruleo. Carrière sostiene che da quel momento, alla tenera età di 82 anni (tanti ne aveva quando visitò la mostra al d’Orsay), il suo modo di apprezzare la pittura è radicalmente cambiato: è in quel dettaglio tecnico, in quell’uso esasperato del colore, in quelle pennellate nervose che, gli fece comprendere ‘da pittore’ Julian Schnabel, va ricercata l’origine, o almeno la concreta espressione artistica dell’instabilità mentale e dell’irrequieta ipersensibilità di Van Gogh.
Quanto all’ipotesi, rigettata dalla comunità internazionale dei critici, secondo cui il colpo di pistola che lo condusse alla morte fu provocato dalla lite di due ragazzi che incidentalmente lo colpirono allo stomaco mentre era intento a dipingere en plein air, e fuggirono terrorizzati che i loro genitori venissero a saperlo, viene scelta da Schnabel a conclusione del film non tanto per sostenere che sia reale, quanto per suggerire ulteriori sfumature delle pulsioni suicide di Vincent (non nuovo a tentativi del genere, comprese altre manifestazioni di autolesionismo, come l’orecchio mozzato), che scagionando i ragazzi e assumendosi la paternità del gesto, avrebbe approfittato di un evento originato casualmente dal proprio tragico e traballante destino. Traballante – forse troppo – è anche la macchina da presa gestita dal direttore della fotografia del film, Benoît Delhomme, il quale tuttavia non ha che assecondato il puntuale desiderio di Schnabel: quello di trasmettere, con le riprese a mano, idiosincratiche e dalle traiettorie disordinate, il caotico disequilibrio della mente di Van Gogh, capace di sprofondare velocemente nella più atra depressione dopo l’euforica ebbrezza davanti all’esplosione di luce di un sole al tramonto, di un campo di grano, o di un cielo stellato.
La scelta registica e artisitica di Schnabel è stata, da artista e pittore a sua volta, esattamente quella di reimmedesimarsi in Van Gogh, senza la presunzione e l’arroganza di sostituirsi a lui, ridipingendo egli stesso i numerosi dipinti che si vedono nel film, impostati e preparati dalla pittrice francese Edith Baudrand, poi da lui rifiniti e terminati, trovando una felice corrispondenza tra il gesto registico e lo stesso gesto artistico dell’autore del film. Schnabel ha addirittura impartito a Willem Dafoe alcune lezioni di pittura, perché fosse lui stesso a maneggiare i pennelli sulla tela, come nella prima sequenza del ritratto al proprio paio di scarpe, per rappresentare più realisticamente lo sforzo della creazione artistica senza ricorrere alle consuete finzioni del cinema, che d’abitudine alterna campi e controcampi in cui sono diversi gli ‘attori’ che danno il volto all’artista (o, per esempio, a un pianista) da altri inquadrati soltanto all’altezza delle mani. Schnabel approfondisce inoltre, partendo sempre dall’aspetto visuale ed evidente delle materiche, nervose e abbondanti pennellate di Van Gogh, il suo legame con la Storia dell’Arte che lo ha preceduto, nella sequenza in cui, in visita alla Grande Galerie del Louvre, Vincent esamina le tele di tre artisti, scelti secondo un preciso criterio critico, Delacroix, Veronese e il connazionale Frans Hals: è negli audaci colpi di pennello del grande olandese del XVII secolo, proprio per questo considerato, forse un tantino campanilisticamente, da alcuni critici fiamminghi il vero padre dell’arte moderna, che Schnabel sembra volerci indicare le radici della grande rivoluzione di Van Gogh e delle sue pennellate dense, istintive, fiammeggianti, frenetica espressione di una viscerale e indisciplinata vitalità artistica.
Il cast del film è, come sempre nel caso di Schnabel, una corona di grandi star dello schermo: Oscar Isaac è Paul Gauguin, Emmanuelle Seigner è Madame Ginoux, ovvero l’Arlesiana, ritratta sei volte da Vincent (una delle sei versioni è in collezione alla Galleria Nazionale di Roma), mentre Mads Mikkelsen e Mathieu Amalric (quest’ultimo già diretto da Schnabel in Lo scafandro e la farfalla), recitano nei rispettivi ruoli di un uomo di chiesa e del celebre Dottor Gachet: per non ridurre la loro partecipazione a semplici e troppo brevi cammei, Schnabel e Carrière (Sulla soglia dell’eternità è sceneggiato a sei mani anche insieme a Louise Kugelberg, che ne firma anche il montaggio) affidano ai due attori due dialoghi che nell’economia generale risultano eccessivamente dilatati e finiscono per rallentare e appesantire l’impatto narrativo di una visione già resa difficoltosa e faticosa dalla traballante cinepresa digitale di Benoît Delhomme: ma ‘mai abbastanza’, come sul set teneva a sottolineargli Julian Schnabel, perché ‘il nostro destino è ballerino: dunque una macchina da presa non ballerà mai abbastanza’.