Il Notturno (...) nelle nostre case
di Lucrezia Longobardi
L’eccezione che stiamo vivendo in questi giorni di chiusura forzata, dettata dalla pandemia da Coronavirus, determina il ricollocamento del nostro sguardo rispetto alla realtà di cui siamo parte. E’ un esercizio necessario di adattamento, un allenamento a comprendere e trasformare l’esperienza che in questo momento storico stiamo vivendo.
E’ il momento di osservare, quindi, con luminosa attenzione.
Se da un lato Notturno con figura. Primo corollario sulla vibrazione è lo squarcio su un aspetto traumatico della nostra esistenza, composto di conati di verità e brandelli di radicali idiosincrasie, dall’altro è la radiografia di come il costruire, praticamente o idealmente, sia la cura al nostro modo di stare nelle cose, l’insegnamento del metodo con cui accudirci per non perdere l’attitudine ad essere presenti a noi stessi.
Le discussioni in ambito filosofico hanno, soprattutto dai primi anni del secolo passato, argomentato con tesi varie la necessità di uno spazio che si faccia uomo. Heidegger nel suo saggio costruire, abitare, pensare rende chiaro questo concetto:
“ Dire: “la relazione tra uomo e spazio” fa pensare che l’uomo stia da una parte e lo spazio dall’altra. Invece lo spazio non è qualcosa che sia di fronte all’uomo. Non è né un oggetto esterno né una esperienza interiore. Non ci sono gli uomini e inoltre lo spazio; giacché se dico “un uomo” e intendo con questo termine quell’ente che è nel modo dell’uomo, e cioè che abita, con ciò indico già con il termine “un uomo” il soggiornare (…) presso le cose.” [1]
Il filosofo tedesco pone un preciso punto di sutura nella comprensione di questa condizione dell’essere e lo colloca tra l’abitare ed il costruire. Attraverso l’etimologia della parola tedesca Buan sviscera le connessioni tra questi tre verbi che provengono dalla stessa radice comune e che quindi si susseguono in una lineare conseguenzialità. Io sono per cui abito e quindi costruisco.
Nell’immaginario sviluppato da me e l’artista Eugenio Tibaldi durante le prime discussioni che portarono poi alla commissione dell’opera HABITAT #1, ha preso vita l’ipotesi di un abitante - presumibilmente quella figura che è espressamente nominata nel titolo della mostra -, un abitante che si fonde con la sua casa, artefice e residente di quella paradossale costruzione vegeto-antropo-morfa che è l’opera; colui che armato di corde e rami, di gingilli, cianfrusaglie e cimeli ha dato forma al suo spazio esistenziale sulla falsa riga di una casa vagheggiata – probabilmente quella odiata-amata, rifiutata-desiderata da cui proviene, la casa del padre, la casa madre, modello odioso e ineludibile che incombe minaccioso nel pastello dei gemelli Ingrassia. L’opera è, infatti, pensata esattamente come un luogo in cui dover dimorare, con tutta una serie di servizi e strutture atte allo svolgimento delle azioni quotidiane, intime. La figura di cui registriamo le tracce – e che, in fondo, è il riflesso di noi che osserviamo – si muove nell’ambiente metamorfico che ha creato, divenendo essa stessa le sue tracce.
In questi giorni di quarantena domestica stiamo scoprendo le nostre case come dei ritratti del nostro essere. Stiamo tutti conoscendo noi stessi attraverso la casa che abbiamo costruito, che abbiamo arredato, allo stesso modo di come abbiamo imparato a conoscere la “figura” della nostra mostra studiandone l’HABITAT. Questo accade perché siamo obbligati a farlo. Perché siamo confinati e vincolati a vivere all’interno dello spazio che ci siamo scelti adattandolo al nostro corpo. Quel che la concentrazione dell’opera d’arte nel museo permette allo spettatore – lo stare di fronte ad un orizzonte problematico preciso e definito circondato da un silenzio perfetto – è dato oggi dal “concentramento” in cui ci ha posti la pandemia, espandendo il pensiero sotteso al nostro Notturno con figura, dallo spazio della Galleria, fin nelle pieghe più quotidiane della nostra esperienza attuale.
Questo stare fermi nelle nostre stanze, ci permette un’analisi profonda di ciò che siamo attraverso gli oggetti di cui ci circondiamo e il nostro modo di usarli, spostarli o semplicemente ignorarli. L’ordine dei mobili che abbiamo disposto, i controsoffitti che abbiamo messo o tolto, le pareti che dipingemmo di un dato colore, la mensola che abbiamo riservato alle spezie posizionate in ordine rigorosamente alfabetico, le piante poco umide, leggermente assetate, sono il valore corrispondente al nostro modo di essere nel luogo e presso noi stessi. Basta osservare, almeno in casa della sottoscritta, la perfetta corrispondenza tra la crescita di foglie irregolari appartenenti alla pianta infestante che ha preso piede in un vaso vacante e lo stato giornaliero dei miei capelli.
Essa, l’opera, rimane intanto silente in un museo inaccessibile, in compagnia di capolavori di cui le invidio la vicinanza. Il suo rapporto con noi è arrestato dall’impossibilità della relazione, e quindi del contagio. Un contagio culturale ed estetico (un virus anche in questo caso?) che ci permette di modificare il nostro immaginario, esplodendo nella nostra mente e colmando una serie di cavità, ampliando la nostra capacità di osservazione, arricchendo il nostro linguaggio. Ha il valore di un dono - questo contagio estetico e culturale - con il quale ci è data la possibilità di comprendere la nostra esistenza, quasi come fosse uno specchio, una formidabile lente di ingrandimento.
Notturno con figura, resta in attesa all’interno di questo tempo sospeso. Fermo nell’impossibilità di registrare nuove esperienze ed esposto non visibile come una promessa, propulsore in potenza all’interno della scatola museale. Ciò che ne rimane è una moderna incisione di traduzione, prodotto tipico per la divulgazione artistica e culturale dell’età moderna, una somma di fotografie e fotogrammi, di testi e riflessioni, ancora in divenire.