“Tremila zecchini d’oro da versare in tre rate: un terzo subito, un terzo a metà dell’opera e il rimanente da saldarsi al compimento”. Così Antonio Canova rispondeva il 1 maggio del 1795 ad Onorato Gaetani dell’Aquila d’Aragona, che gli aveva richiesto un’opera nel genere forte. Non fu però lui a pagarlo, quanto il banchiere Giovanni Raimondo Torlonia: le alterne vicende che accompagnarono il cambio di committenza, la complessa realizzazione dell’opera, i suoi numerosi spostamenti di sede fino al trasferimento definitivo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, fanno da sfondo al mutevole giudizio della critica.
Poco dopo la nota scomunica di Roberto Longhi – Antonio Canova, lo scultore nato morto - , era stato Cesare Brandi, a metà del secolo scorso, a rincarare la dose: “Questo, di esser freddo e stentoreo, è il segreto del Canova…L’Ercole e Lica è una mostruosità inarrivabile: come il mammuth ritrovato nel blocco di ghiaccio, è la scultura barocca, il Torso del Belvedere, il Toro Farnese, messi in ghiacciaia, anchilosati dai reumi, fossilizzati come l’antracite.” Ma ci fu chi, come Mario Praz, osò invece rivalutare l’aspetto eroico dell’artista e l’abilità tecnica di uno scultore capace di sfruttare i “peli” del blocco marmoreo, lasciando la parte maculata al corpo di Lica che appare così cosparso di lividi, come ha dimostrato il restauro condotto da Pico Cellini.
D’altronde Canova stesso, in una lettera a Quatremère de Quincy il 9 novembre 1815 da Londra, dopo aver ammirato i marmi del Partenone trafugati da Lord Elgin, scriveva: “Le opere dunque di Fidia sono vera carne, cioè la bella natura. Carne è il Mercurio senza braccia di Belvedere, carne è il Torso, carne il Gladiatore combattente…Devo confessarvi, caro amico, che l’aver vedute queste belle cose ha solleticato il mio amor proprio: perché sempre io sono stato di sentimento che i grandi maestri avessero dovuto operare in questo modo e non altrimenti. (…) perché sempre gli uomini sono stati composti di carne flessibile e non di bronzo”.
Chiara Stefani
Poco dopo la nota scomunica di Roberto Longhi – Antonio Canova, lo scultore nato morto - , era stato Cesare Brandi, a metà del secolo scorso, a rincarare la dose: “Questo, di esser freddo e stentoreo, è il segreto del Canova…L’Ercole e Lica è una mostruosità inarrivabile: come il mammuth ritrovato nel blocco di ghiaccio, è la scultura barocca, il Torso del Belvedere, il Toro Farnese, messi in ghiacciaia, anchilosati dai reumi, fossilizzati come l’antracite.” Ma ci fu chi, come Mario Praz, osò invece rivalutare l’aspetto eroico dell’artista e l’abilità tecnica di uno scultore capace di sfruttare i “peli” del blocco marmoreo, lasciando la parte maculata al corpo di Lica che appare così cosparso di lividi, come ha dimostrato il restauro condotto da Pico Cellini.
D’altronde Canova stesso, in una lettera a Quatremère de Quincy il 9 novembre 1815 da Londra, dopo aver ammirato i marmi del Partenone trafugati da Lord Elgin, scriveva: “Le opere dunque di Fidia sono vera carne, cioè la bella natura. Carne è il Mercurio senza braccia di Belvedere, carne è il Torso, carne il Gladiatore combattente…Devo confessarvi, caro amico, che l’aver vedute queste belle cose ha solleticato il mio amor proprio: perché sempre io sono stato di sentimento che i grandi maestri avessero dovuto operare in questo modo e non altrimenti. (…) perché sempre gli uomini sono stati composti di carne flessibile e non di bronzo”.