Jackson Pollock nacque a Cody nel Wyoming, il 28 gennaio 1912. È stato uno dei maggiori rappresentanti dell'espressionismo astratto e dell'action painting. È morto in un incidente automobilistico a Long Island nel 1956. Nel 1958 la Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, che custodisce in collezione tre suoi dipinti, gli dedica la prima mostra realizzata in Europa.
I testi di Giulio Carlo Argan, Carla Lonzi, Palma Bucarelli e Renato Guttuso scritti in occasione della mostra alla Galleria Nazionale del 1958 e della mostra alla Galleria Marlborough del 1962.
I suoi colori cadono dall’alto
di Giulio Carlo Argan
La prima grande mostra di Jackson Pollock in Europa fu a Roma nel 1958, nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna: poco più d’un anno era passato dalla sua morte in un incidente d’auto, che fu come un suicidio inconscio. L’avvenimento cadeva nel momento più giusto: dopo l’esperienza comune della guerra era forte il desiderio d’un rapporto dialettico tra la cultura europea e l’americana.
La prima era stanca e in declino, la seconda in ascesa, tuttavia s’incontravano ai bordi di una crisi che, in fondo, era la stessa. Dilagava l’informalismo, che per l’una era angoscia esistenziale, per l’altra prorompente impulso creativo. O pareva. Pollock, che era più avanti degli altri, sapeva già che la crisi non ammetteva altra uscita che il caos o il sublime, ma per accedere al sublime si doveva passare per la sconvolgente esperienza del caos. E fu la sua disperata impresa. La seconda mostra fu, ventiquattro anni dopo, a Parigi, nel Centre Pompidou.
[…]
Pollock non fu un invasato, fu uno dei più grandi intellettuali americani più drammaticamente coscienti dell’ambiguità del loro ruolo. Anche a lui l’inutile orrore di Hiroshima aveva dato la nevrosi dell’atto gratuito: forse il progettismo tecnologico del sistema, che recava alla distruzione, poteva riscattarsi con la gratuità del segno contrario, sublime invece che orrida, dell’atto creativo dell’arte. Come l’esistenzialismo fu la filosofia, così l’informalismo fu l’arte della crisi.
Una mostra di Jackson Pollock a Roma
di Carla Lonzi
Una importante mostra di Jackson Pollock è stata organizzata a Roma dalla Galleria Malborough di Londra […] a cinque anni di distanza dalla prima grande mostra tenutesi in Italia [alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea]. […] La caratteristica saliente della sua ricerca, che rivela una peculiarità tutta americana nell’affrontare il lavoro artistico, è che essa si rivolge fuori da qualsiasi inibizione relativa al concepire tale attività nell’ambito di una categoria ideale di lineamenti precostituiti, la categoria della pittura, appunto.
Il modo in cui Pollock affronta l’insegnamento, oltre che di pittori regionali come Benton di messicani come Oronzo e Siquieiros, anche di grossi testi sacri come Picasso e Mirò, appare effettivamente sconcertante.
[…]
Nello stesso periodo in cui in Europa vigeva un picassismo rispettoso e prevalentemente formalistico che ha dato ben magri risultati, in America con Pollock (e non solo con lui) si assiste a un fenomeno di apprendistato apparentemente vandalico, sostanzialmente anarchico e liberatorio. I mostri di Guernica diventano placide immagini di estroversione mediterranea al confronto delle ossessive immagini totemiche del terrore e dell’esaltazione vitalistica che, in una specie di sgrammaticatura programmatica, investono i quadri di Pollock. […] Nella loro mancanza di una vera tradizione moderna locale, nessuna egemonia precostituita può indurre a un atteggiamento di moderazione: gli indiani con le loro pitture anonime sulla sabbia, i loro tappeti, i loro scialli, i loro totem, vengono posti sullo stesso piano dei campioni della cultura pittorica europea. Un mondo emozionale imprevedibile e ansioso di trovare i termini originali in cui testimoniare sé stesso, si scontra con la cultura europea e, in qualche modo, ne fa strage. I richiami picassiani nell’opera di Jackson Pollock vanno dalla citazione quasi testuale, ma affrettata e carpita d’impulso, a una specie di significativa parodia. Il tutto con una forza e un entusiasmo, una capacità di travolgere la civilissima cultura primitiva di Picasso in un primordio autentico e angoscioso, da far considerare oggi il periodo di acculturamento di Pollock come uno dei primi esempi di pittura veramente americana.
Quel rivendicare la propria concreta condizione di americani in cerca di un’identità pienamente rispondente senza lasciarsi tentare dall’adesione agli altissimi esempi che venivano dall’Europa, ma neppure senza evitare di misurarsi con loro, anzi affrontando la prova come un modo di manifestarsi per quello che si è, ha costituito la ragione per cui finalmente nel dopoguerra si è venuta creando una fisionomia dell’arte americana non grettamente nazionalista e neppure a rimorchio dell’Europa, ma veramente autonoma e chiarificatrice per l’Europa stessa.
Il grande talento pittorico di Jackson Pollock, la sua natura autentica hanno dato luogo a un nodo essenziale della difficile congiunzione. Nella mostra romana si poteva ben vedere a che livello di libertà stilistica elementi di folclore indigeno e di sintassi figurativa occidentale si venivano folgorando in Pollock negli anni tra il ’35 e il ’45 circa quando, avendo trovato nelle teorie dell’inconscio praticate dai surrealisti, la giustificazione ideologica del suo atteggiamento, l’artista adottò quella tecnica ormai famosa del dripping, nello sgocciolare colore liquido sulla tela, che doveva incorporare l’esperienza precedente liberandola di ogni possibile scoria o residuo di dualismo, in una delle invenzioni più importanti della storia dello sviluppo artistico moderno.
Jackson Pollock
di Palma Bucarelli
Pochi artisti come Jackson Pollock hanno conosciuto, in una vita così breve, una fama tanto rapida e universale. Morto due anni fa, a soli quarantaquattro anni, la sua opera era durata appena dieci anni e la produzione delle sue pitture più originali anche meno. Un’apparizione dunque molto breve, ma carica di conseguenze per gli sviluppi dell’arte contemporanea. La sua influenza sulle nuove generazioni di artisti d’America e d’Europa si fece sentire soprattutto dal momento in cui comparvero le grandi tele dipinte intorno al 1950, così singolari per invenzione e per tecnica che s’imposero subito all’attenzione come un avvenimento importante, una conquista certa nel mondo delle forme artistiche intese ad esprimere il ritmo dell’irrequieto e avventuroso tempo che viviamo. L’arte del Pollock fu sentita come una scoperta, e in realtà essa era una geniale soluzione di intuizioni che erano avvenute affiorando nel campo dell’arte per un bisogno di reagire al razionalismo puro, rigorosamente classico. Di quelle correnti il cui esponente maggiore era stato Piet Mondrian; bisogno specialmente sentito negli Stati Uniti, dove il pittore olandese visse l’ultimo tempo della sua vita, fino al 1944, esercitandovi a lungo un’influenza quasi incontrastata.
Come accade quando un artista esprime nella sua opera un’aspirazione del momento, la pittura di Pollock apparve come la forma più compiuta ed estrema di quella rivolta. Abbandonando infatti fin l’ultima parvenza di un’idea di forma preconcetta – e sia pure anche solo affiorante della memoria o ridotta a un ideogramma, che per quanto automatico è pur sempre un presupposto mentale – il Pollock si affida interamente al puro impulso dell’atto fisico del dipingere, affermando che il quadro compiuto sarà l’immagine di quel gesto e del suo potere emotivo. Al di fuori di ogni richiamo analogico, la pittura può dunque esprimere per se stessa i moti profondi dell’essere; l’intensità dell’emozione sarà tanto più chiaramente espressa quanto più sarà reperibile nella tela la “quantità” e la “durata” dell’azione pittorica. Il modo in cui l’artista si propone di riuscire ad esprimere questo suo sentimento della pittura è il più semplice e potremmo dire naturale, date le premesse: un segno filiforme e continuo, quasi il filo conduttore dell’ispirazione, a poco a poco, per infiniti andirivieni incrociandosi e sovrapponendosi, satura lo spazio della tela di un groviglio dinamico che vuole essere appunto, alla fine, l’immagine della carica di energia creativa che l’artista vi ha saputo riversare. Un segno così personale come una scrittura, che sembra continuo e ripetuto come un’ossessione, ma che in realtà, in quel suo avventuroso cammino procede secondo lo stimolo dei più profondi impulsi dell’artista, e ora scatta e si frantuma in miriadi di piccole particelle punti e frammenti, ora si raggruma in macchie e in chiazze come per l’addensarsi dell’emozione in quel punto. Eppure, quando l’opera è compiuta, l’interesse emotivo appare uguale su tutta la superficie della tela, fino ai più lontani margini; non c’è un fuoco infatti, uno o più centri intorno a cui l’immagine si coordini, come nella pittura consueta: per vasta che sia la tela, si ha l’impressione che i suoi limiti siamo determinati soltanto da fatti esterni e che il libero espandersi di quell’energia vitale di cui è carica potrebbe continuare all’infinito nello spazio. È certo la rottura più completa che si fosse vista fino allora con il concetto tradizionale della composizione definita e conclusa entro la cornice del quadro.
Si è tanto parlato, da certe parti perfino con scandalo, della tecnica di lavoro del Pollock. Ma ogni artista che ha da dire qualche cosa di nuovo si crea sempre i suoi propri strumenti adatti al fine che vuole raggiungere. Per quello che vuole esprimere, il Pollock non ha più bisogno, anzi gli è di distrazione, la prospettiva obbligata del cavalletto e perfino del muso e finisce per stendere la tela per terra: gli sembra così di essere, come egli stesso diceva, più dentro la sua pittura, più immedesimato nel gesto di dipingere. E poiché, come rilevavo, non esiste centro compositivo, ma una stessa quantità d’emozione dovrà occupare uniformemente tutto lo spazio in ogni suo punto, l’artista può cominciare e riprende il suo lavoro da qualunque parte della tela. Così come può cominciare a buttar giù i primi segni col primo colore che si trovi sottomano; non ha infatti alcuna idea prestabilita non solo di forma ma nemmeno di colore e l’accordo di quel primo colore con gli altri che seguiranno si stabilisce solo man mano che l’opera si sviluppa, suggerito dal concatenarsi dei rapporti nell’atto stesso di dipingere. […]
Certo una tecnica così estrosa e inaudita può aver colpito le immaginazioni in un mondo ansioso di trovare nuovi strumenti per le sue nuove espressioni; certo la parte spettacolare dei suoi modi, le tele enormi, l’affermazione violenta dell’action painting, come l’hanno chiamata gli americani questa “pittura d’azione”, dell’all over painting possono spiegare la rapidità della diffusione dell’arte del Pollock anche in Europa, dove pure non si era mai vista finora una sua mostra personale e comunque non si conoscevano le grandi tele che costituiscono il fatto più saliente della sua pittura; e possono spiegare l’apparire e il moltiplicarsi dell’uso di tele sempre più grandi, del colore colato direttamente sulla tela, della composizione trasposta in superficie, dello spazio a due dimensioni. Ma le invenzioni tecniche non potrebbero da sole giustificare l’influenza profonda dell’arte del Pollock. Egli è stato probabilmente il catalizzatore di un’aspirazione diffusamente sentita, come dicevo, ma è certo che egli ne ha offerto una delle possibili soluzioni con uno stile geniale, tale da farlo considerare oggi come un caposcuola dei movimenti d’avanguardia e particolarmente l’esponente di quella tendenza che è stata definita del “lirismo astratto”.
Del resto un artista non esercita mai una influenza così vasta e durevole solo per ragioni di curiosità e di novità; occorrono qualità intime reali. E Jackson Pollock non solo è artista dotato di qualità umane e poetiche, ma la sua storia è radicata in un ben identificabile terreno di cultura e la sua arte è stata impegnata nei problemi del suo tempo perfino con l’esuberanza di una passionalità romantica. Egli è infatti il più recente frutto di quelle correnti espressioniste e surrealiste che sono il grande filone romantico dell’arte moderna – contrapposto alla corrente classica del cubismo, del costruttivismo, del neoplasticismo – e nelle quali si afferma la libertà assoluta dell’individuo; talora cosciente come nelle tormentate deformazioni dell’espressionismo, talaltra affiorante dall’inconscio come nei drammi onirici del surrealismo. La tradizione americana poi, è fondamentalmente romantica, e il Pollock è profondamente americano. Nella sua arte pur nutrita dalla cultura europea, specialmente da certe forme di espressionismo di Picasso e del surrealismo di Masson, di Mirò e di Ernst, gli elementi americani hanno un grande peso e si rivelano per esempio nell’importanza attribuita alla tecnica, nella particolare considerazione della materia pittorica, nella fiducia nel valore dell’azione in sé. Perfino, a guardar bene, il soggettivismo contenuto nel suo temperamento romantico, nel momento stesso in cui vuole esprimersi prepotentemente come pura energia creativa individuale tende ad annullarsi nell’uniformità del gesto ripetuto all’infinito, nel tessuto di materia viva e brulicante che riempie tutto lo spazio con la uguale intensità di un ritmo emotivo che sembra riecheggiare dall’intimo dell’artista, e forse inconsciamente, il ritmo tipicamente collettivo della vita americana. Per questi motivi il Pollock ha potuto realizzare in forma artisticamente plausibile la fusione di due termini che sembravano inconciliabili, l’individuale dello espressionismo e l’universale dell’astrattismo, creando quello che è stato definito l’espressionismo astratto.
Jackson Pollock è forse la personalità più nota di quell’ormai numeroso gruppo di artisti di grande valore con cui l’America si è posta oggi in primo piano nei movimenti dell’arte mondiale. Sono perciò molto lieta che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna abbia potuto presentare la prima grande mostra di questo artista si veda in Europa […].
Il caso di Jackson Pollock
con il contributo di Renato Guttuso
In occasione della Mostra di Jackson Pollock (1912-1956) allestita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (marzo 1958), la redazione del Contemporaneo ha invitato l’artista Renato Guttuso e i critici d’arte Del Guercio, Micacchi, Morosini, Trombadori e lo scrittore Mucci ad esprimere, in un colloquio, le loro impressioni e i loro giudizi sull’opera del pittore americano. Di seguito il contributo di Renato Guttuso.
Tutta la critica italiana che passa per avvertita e informata non si accorse di Jackson Pollock alla Biennale del ’50. Egli passò quasi inosservato in quell’epoca anche da coloro che oggi sono i suoi più entusiastici sostenitori.
Le origini culturali di Pollock sono di una semplicità straordinaria. Espressionismo e surrealismo sono le due componenti fondamentali della sua personalità; egli ne accetta i testi sentimentalmente e passionalmente, ma li trascrive con un grande talento. Non si può assolutamente negare che la sua trascrizione di Picasso, per esempio, di certi disegni di Picasso, sia tutt’altro che meccanica o banale. Però, a un certo momento, si accorge che da quel groviglio non può uscire, e l’unico modo che sa trovare è quello di abbandonarsi totalmente a questo groviglio non può uscire, e l’unico modo che sa trovare è quello di abbandonarsi totalmente a questo groviglio di linee, di sgocciolature, a questa tesi informale nella quale si sente più soddisfatto, si sfoga di più. Poi si accorgerà che questa non è una soluzione e si adopererà per uscirne.
Pollock non si rifà all’avanguardismo, ma in lui, certo, c’è l’istanza di un metodo avanguardistico, ma lui, certo, c’è l’istanza di un metodo avanguardistico. Insomma, il suo fallimento implicito, (un grande fallimento ma che ciononostante è fallimento) consiste proprio nel fatto che egli non esce dal “metodo” dell’avanguardia, che contraddice all’esigenza moderna…
Voglio rispondere alla obiezione che Mucci mi fa a proposito delle bucce del surrealismo [Mucci sosteneva che “le due componenti della formazione di Pollock, l’espressionismo e il surrealismo, sono in realtà le bucce, anche tante volte le bucce marce dell’espressionismo e del surrealismo, che entrano nella formazione di Pollock. Io vorrei domandarmi: dov’è il contenuto di denuncia, che era un elemento fondamentale dell’espressionismo? E quel contenuto di rivolta, sia pure anarcoide e caotica del primo surrealismo?”]. Sì, da un punto di vista strettamente culturale, è vero. Infatti il surrealismo gli arriva un po’ attraverso certe forme esteriori del surrealismo d’esportazione. Però non c’è nessun dubbio (ma qui bisognerebbe fare il discorso con i quadri alla mano) che ci sono degli elementi dell’espressionismo.
Per esempio in Gothic del 1944 c’è una figura con un braccio che alza il pugno, c’è una figura di un uomo che grida, in basso a destra c’è una figura a terra con una mano alzata, poi c’è quest’occhio che viene sempre fuori, tipico dell’espressionismo, c’è nelle trascrizioni di Picasso, nei massacri, ecc.
Nell’ultimo quadro da lui dipinto che si chiama Fragranza, e nessun critico l’ha detto, c’è un autoritratto. C’è la figura, c’è la testa, le mani, le spalle, il braccio, la bocca, i denti. Mi pare che questo quadro faccia pensare nella pittura piuttosto a un filone olandese. Mi riferisco a van Gogh e a Ensor. Sono i due pittori che si ritrovano in questo quadro, e c’è un elemento surrealista che gli viene da Lorca (egli lo chiama Fragranza e anche questo ha il suo significato). Vi ricordate quel poema di Lorca dove si parla del torero ucciso: il tuo cranio fiorisce, i fiori nascono dalla tua bocca. C’è un violento senso della morte e della vita, insieme, in questo quadro che mi affascina molto.
Vorrei riallacciarmi a quello che ha detto Micacchi. Micacchi dice: Pollock mi colpisce perché mi trova in uno stato di maggiore incertezza. A me capita il contrario. Jackson Pollock mi colpisce perché mi trova in uno stato di maggiore certezza. Forse perché non sono un critico, perché non vedo le cose da critico, ma attraverso la mia esperienza artistica, devo dire che per me l’apparizione di un pittore autentico, di un pittore che si slancia e si abbandona, è sempre un avvenimento in qualche modo positivo. Sarà negativo per quelli che non possono fare a meno di un modello da imitare. Per me, per il mio lavoro, non è negativo. La mostra di Pollock non solo mi è piaciuta ma mi ha anche aiutato. Mi ha insegnato qualche cosa. È evidente che io non mi metterò da stasera a dipingere a terra e a far sgocciolare il colore, perché presumo di non essere così stupido. Non sta in questo l’insegnamento di Pollock per me. Che cosa può insegnare un pittore a un pittore, in fin dei conti? Ti insegna che certe volte uno può buttare il cuore ancora più avanti; e questo, Pollock lo insegna […].
I testi di Giulio Carlo Argan, Carla Lonzi, Palma Bucarelli e Renato Guttuso scritti in occasione della mostra alla Galleria Nazionale del 1958 e della mostra alla Galleria Marlborough del 1962.
La copertina del catalogo della mostra Jackson Pollock del 1958
Archivi della Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea
I suoi colori cadono dall’alto
di Giulio Carlo Argan
La prima grande mostra di Jackson Pollock in Europa fu a Roma nel 1958, nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna: poco più d’un anno era passato dalla sua morte in un incidente d’auto, che fu come un suicidio inconscio. L’avvenimento cadeva nel momento più giusto: dopo l’esperienza comune della guerra era forte il desiderio d’un rapporto dialettico tra la cultura europea e l’americana.
La prima era stanca e in declino, la seconda in ascesa, tuttavia s’incontravano ai bordi di una crisi che, in fondo, era la stessa. Dilagava l’informalismo, che per l’una era angoscia esistenziale, per l’altra prorompente impulso creativo. O pareva. Pollock, che era più avanti degli altri, sapeva già che la crisi non ammetteva altra uscita che il caos o il sublime, ma per accedere al sublime si doveva passare per la sconvolgente esperienza del caos. E fu la sua disperata impresa. La seconda mostra fu, ventiquattro anni dopo, a Parigi, nel Centre Pompidou.
[…]
Pollock non fu un invasato, fu uno dei più grandi intellettuali americani più drammaticamente coscienti dell’ambiguità del loro ruolo. Anche a lui l’inutile orrore di Hiroshima aveva dato la nevrosi dell’atto gratuito: forse il progettismo tecnologico del sistema, che recava alla distruzione, poteva riscattarsi con la gratuità del segno contrario, sublime invece che orrida, dell’atto creativo dell’arte. Come l’esistenzialismo fu la filosofia, così l’informalismo fu l’arte della crisi.
Jackson Pollock, Watery Paths (Sentieri ondulati), 1947
Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea
dono di Peggy Guggenheim
Una mostra di Jackson Pollock a Roma
di Carla Lonzi
Una importante mostra di Jackson Pollock è stata organizzata a Roma dalla Galleria Malborough di Londra […] a cinque anni di distanza dalla prima grande mostra tenutesi in Italia [alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea]. […] La caratteristica saliente della sua ricerca, che rivela una peculiarità tutta americana nell’affrontare il lavoro artistico, è che essa si rivolge fuori da qualsiasi inibizione relativa al concepire tale attività nell’ambito di una categoria ideale di lineamenti precostituiti, la categoria della pittura, appunto.
Il modo in cui Pollock affronta l’insegnamento, oltre che di pittori regionali come Benton di messicani come Oronzo e Siquieiros, anche di grossi testi sacri come Picasso e Mirò, appare effettivamente sconcertante.
[…]
Nello stesso periodo in cui in Europa vigeva un picassismo rispettoso e prevalentemente formalistico che ha dato ben magri risultati, in America con Pollock (e non solo con lui) si assiste a un fenomeno di apprendistato apparentemente vandalico, sostanzialmente anarchico e liberatorio. I mostri di Guernica diventano placide immagini di estroversione mediterranea al confronto delle ossessive immagini totemiche del terrore e dell’esaltazione vitalistica che, in una specie di sgrammaticatura programmatica, investono i quadri di Pollock. […] Nella loro mancanza di una vera tradizione moderna locale, nessuna egemonia precostituita può indurre a un atteggiamento di moderazione: gli indiani con le loro pitture anonime sulla sabbia, i loro tappeti, i loro scialli, i loro totem, vengono posti sullo stesso piano dei campioni della cultura pittorica europea. Un mondo emozionale imprevedibile e ansioso di trovare i termini originali in cui testimoniare sé stesso, si scontra con la cultura europea e, in qualche modo, ne fa strage. I richiami picassiani nell’opera di Jackson Pollock vanno dalla citazione quasi testuale, ma affrettata e carpita d’impulso, a una specie di significativa parodia. Il tutto con una forza e un entusiasmo, una capacità di travolgere la civilissima cultura primitiva di Picasso in un primordio autentico e angoscioso, da far considerare oggi il periodo di acculturamento di Pollock come uno dei primi esempi di pittura veramente americana.
Quel rivendicare la propria concreta condizione di americani in cerca di un’identità pienamente rispondente senza lasciarsi tentare dall’adesione agli altissimi esempi che venivano dall’Europa, ma neppure senza evitare di misurarsi con loro, anzi affrontando la prova come un modo di manifestarsi per quello che si è, ha costituito la ragione per cui finalmente nel dopoguerra si è venuta creando una fisionomia dell’arte americana non grettamente nazionalista e neppure a rimorchio dell’Europa, ma veramente autonoma e chiarificatrice per l’Europa stessa.
Il grande talento pittorico di Jackson Pollock, la sua natura autentica hanno dato luogo a un nodo essenziale della difficile congiunzione. Nella mostra romana si poteva ben vedere a che livello di libertà stilistica elementi di folclore indigeno e di sintassi figurativa occidentale si venivano folgorando in Pollock negli anni tra il ’35 e il ’45 circa quando, avendo trovato nelle teorie dell’inconscio praticate dai surrealisti, la giustificazione ideologica del suo atteggiamento, l’artista adottò quella tecnica ormai famosa del dripping, nello sgocciolare colore liquido sulla tela, che doveva incorporare l’esperienza precedente liberandola di ogni possibile scoria o residuo di dualismo, in una delle invenzioni più importanti della storia dello sviluppo artistico moderno.
Jackson Pollock, Painting A, 1950
Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea
Jackson Pollock
di Palma Bucarelli
Pochi artisti come Jackson Pollock hanno conosciuto, in una vita così breve, una fama tanto rapida e universale. Morto due anni fa, a soli quarantaquattro anni, la sua opera era durata appena dieci anni e la produzione delle sue pitture più originali anche meno. Un’apparizione dunque molto breve, ma carica di conseguenze per gli sviluppi dell’arte contemporanea. La sua influenza sulle nuove generazioni di artisti d’America e d’Europa si fece sentire soprattutto dal momento in cui comparvero le grandi tele dipinte intorno al 1950, così singolari per invenzione e per tecnica che s’imposero subito all’attenzione come un avvenimento importante, una conquista certa nel mondo delle forme artistiche intese ad esprimere il ritmo dell’irrequieto e avventuroso tempo che viviamo. L’arte del Pollock fu sentita come una scoperta, e in realtà essa era una geniale soluzione di intuizioni che erano avvenute affiorando nel campo dell’arte per un bisogno di reagire al razionalismo puro, rigorosamente classico. Di quelle correnti il cui esponente maggiore era stato Piet Mondrian; bisogno specialmente sentito negli Stati Uniti, dove il pittore olandese visse l’ultimo tempo della sua vita, fino al 1944, esercitandovi a lungo un’influenza quasi incontrastata.
Come accade quando un artista esprime nella sua opera un’aspirazione del momento, la pittura di Pollock apparve come la forma più compiuta ed estrema di quella rivolta. Abbandonando infatti fin l’ultima parvenza di un’idea di forma preconcetta – e sia pure anche solo affiorante della memoria o ridotta a un ideogramma, che per quanto automatico è pur sempre un presupposto mentale – il Pollock si affida interamente al puro impulso dell’atto fisico del dipingere, affermando che il quadro compiuto sarà l’immagine di quel gesto e del suo potere emotivo. Al di fuori di ogni richiamo analogico, la pittura può dunque esprimere per se stessa i moti profondi dell’essere; l’intensità dell’emozione sarà tanto più chiaramente espressa quanto più sarà reperibile nella tela la “quantità” e la “durata” dell’azione pittorica. Il modo in cui l’artista si propone di riuscire ad esprimere questo suo sentimento della pittura è il più semplice e potremmo dire naturale, date le premesse: un segno filiforme e continuo, quasi il filo conduttore dell’ispirazione, a poco a poco, per infiniti andirivieni incrociandosi e sovrapponendosi, satura lo spazio della tela di un groviglio dinamico che vuole essere appunto, alla fine, l’immagine della carica di energia creativa che l’artista vi ha saputo riversare. Un segno così personale come una scrittura, che sembra continuo e ripetuto come un’ossessione, ma che in realtà, in quel suo avventuroso cammino procede secondo lo stimolo dei più profondi impulsi dell’artista, e ora scatta e si frantuma in miriadi di piccole particelle punti e frammenti, ora si raggruma in macchie e in chiazze come per l’addensarsi dell’emozione in quel punto. Eppure, quando l’opera è compiuta, l’interesse emotivo appare uguale su tutta la superficie della tela, fino ai più lontani margini; non c’è un fuoco infatti, uno o più centri intorno a cui l’immagine si coordini, come nella pittura consueta: per vasta che sia la tela, si ha l’impressione che i suoi limiti siamo determinati soltanto da fatti esterni e che il libero espandersi di quell’energia vitale di cui è carica potrebbe continuare all’infinito nello spazio. È certo la rottura più completa che si fosse vista fino allora con il concetto tradizionale della composizione definita e conclusa entro la cornice del quadro.
Si è tanto parlato, da certe parti perfino con scandalo, della tecnica di lavoro del Pollock. Ma ogni artista che ha da dire qualche cosa di nuovo si crea sempre i suoi propri strumenti adatti al fine che vuole raggiungere. Per quello che vuole esprimere, il Pollock non ha più bisogno, anzi gli è di distrazione, la prospettiva obbligata del cavalletto e perfino del muso e finisce per stendere la tela per terra: gli sembra così di essere, come egli stesso diceva, più dentro la sua pittura, più immedesimato nel gesto di dipingere. E poiché, come rilevavo, non esiste centro compositivo, ma una stessa quantità d’emozione dovrà occupare uniformemente tutto lo spazio in ogni suo punto, l’artista può cominciare e riprende il suo lavoro da qualunque parte della tela. Così come può cominciare a buttar giù i primi segni col primo colore che si trovi sottomano; non ha infatti alcuna idea prestabilita non solo di forma ma nemmeno di colore e l’accordo di quel primo colore con gli altri che seguiranno si stabilisce solo man mano che l’opera si sviluppa, suggerito dal concatenarsi dei rapporti nell’atto stesso di dipingere. […]
Certo una tecnica così estrosa e inaudita può aver colpito le immaginazioni in un mondo ansioso di trovare nuovi strumenti per le sue nuove espressioni; certo la parte spettacolare dei suoi modi, le tele enormi, l’affermazione violenta dell’action painting, come l’hanno chiamata gli americani questa “pittura d’azione”, dell’all over painting possono spiegare la rapidità della diffusione dell’arte del Pollock anche in Europa, dove pure non si era mai vista finora una sua mostra personale e comunque non si conoscevano le grandi tele che costituiscono il fatto più saliente della sua pittura; e possono spiegare l’apparire e il moltiplicarsi dell’uso di tele sempre più grandi, del colore colato direttamente sulla tela, della composizione trasposta in superficie, dello spazio a due dimensioni. Ma le invenzioni tecniche non potrebbero da sole giustificare l’influenza profonda dell’arte del Pollock. Egli è stato probabilmente il catalizzatore di un’aspirazione diffusamente sentita, come dicevo, ma è certo che egli ne ha offerto una delle possibili soluzioni con uno stile geniale, tale da farlo considerare oggi come un caposcuola dei movimenti d’avanguardia e particolarmente l’esponente di quella tendenza che è stata definita del “lirismo astratto”.
Del resto un artista non esercita mai una influenza così vasta e durevole solo per ragioni di curiosità e di novità; occorrono qualità intime reali. E Jackson Pollock non solo è artista dotato di qualità umane e poetiche, ma la sua storia è radicata in un ben identificabile terreno di cultura e la sua arte è stata impegnata nei problemi del suo tempo perfino con l’esuberanza di una passionalità romantica. Egli è infatti il più recente frutto di quelle correnti espressioniste e surrealiste che sono il grande filone romantico dell’arte moderna – contrapposto alla corrente classica del cubismo, del costruttivismo, del neoplasticismo – e nelle quali si afferma la libertà assoluta dell’individuo; talora cosciente come nelle tormentate deformazioni dell’espressionismo, talaltra affiorante dall’inconscio come nei drammi onirici del surrealismo. La tradizione americana poi, è fondamentalmente romantica, e il Pollock è profondamente americano. Nella sua arte pur nutrita dalla cultura europea, specialmente da certe forme di espressionismo di Picasso e del surrealismo di Masson, di Mirò e di Ernst, gli elementi americani hanno un grande peso e si rivelano per esempio nell’importanza attribuita alla tecnica, nella particolare considerazione della materia pittorica, nella fiducia nel valore dell’azione in sé. Perfino, a guardar bene, il soggettivismo contenuto nel suo temperamento romantico, nel momento stesso in cui vuole esprimersi prepotentemente come pura energia creativa individuale tende ad annullarsi nell’uniformità del gesto ripetuto all’infinito, nel tessuto di materia viva e brulicante che riempie tutto lo spazio con la uguale intensità di un ritmo emotivo che sembra riecheggiare dall’intimo dell’artista, e forse inconsciamente, il ritmo tipicamente collettivo della vita americana. Per questi motivi il Pollock ha potuto realizzare in forma artisticamente plausibile la fusione di due termini che sembravano inconciliabili, l’individuale dello espressionismo e l’universale dell’astrattismo, creando quello che è stato definito l’espressionismo astratto.
Jackson Pollock è forse la personalità più nota di quell’ormai numeroso gruppo di artisti di grande valore con cui l’America si è posta oggi in primo piano nei movimenti dell’arte mondiale. Sono perciò molto lieta che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna abbia potuto presentare la prima grande mostra di questo artista si veda in Europa […].
Jackson Pollock, Square composition (with horse), 1937-1938
Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea
Il caso di Jackson Pollock
con il contributo di Renato Guttuso
In occasione della Mostra di Jackson Pollock (1912-1956) allestita alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (marzo 1958), la redazione del Contemporaneo ha invitato l’artista Renato Guttuso e i critici d’arte Del Guercio, Micacchi, Morosini, Trombadori e lo scrittore Mucci ad esprimere, in un colloquio, le loro impressioni e i loro giudizi sull’opera del pittore americano. Di seguito il contributo di Renato Guttuso.
Tutta la critica italiana che passa per avvertita e informata non si accorse di Jackson Pollock alla Biennale del ’50. Egli passò quasi inosservato in quell’epoca anche da coloro che oggi sono i suoi più entusiastici sostenitori.
Le origini culturali di Pollock sono di una semplicità straordinaria. Espressionismo e surrealismo sono le due componenti fondamentali della sua personalità; egli ne accetta i testi sentimentalmente e passionalmente, ma li trascrive con un grande talento. Non si può assolutamente negare che la sua trascrizione di Picasso, per esempio, di certi disegni di Picasso, sia tutt’altro che meccanica o banale. Però, a un certo momento, si accorge che da quel groviglio non può uscire, e l’unico modo che sa trovare è quello di abbandonarsi totalmente a questo groviglio non può uscire, e l’unico modo che sa trovare è quello di abbandonarsi totalmente a questo groviglio di linee, di sgocciolature, a questa tesi informale nella quale si sente più soddisfatto, si sfoga di più. Poi si accorgerà che questa non è una soluzione e si adopererà per uscirne.
Pollock non si rifà all’avanguardismo, ma in lui, certo, c’è l’istanza di un metodo avanguardistico, ma lui, certo, c’è l’istanza di un metodo avanguardistico. Insomma, il suo fallimento implicito, (un grande fallimento ma che ciononostante è fallimento) consiste proprio nel fatto che egli non esce dal “metodo” dell’avanguardia, che contraddice all’esigenza moderna…
Voglio rispondere alla obiezione che Mucci mi fa a proposito delle bucce del surrealismo [Mucci sosteneva che “le due componenti della formazione di Pollock, l’espressionismo e il surrealismo, sono in realtà le bucce, anche tante volte le bucce marce dell’espressionismo e del surrealismo, che entrano nella formazione di Pollock. Io vorrei domandarmi: dov’è il contenuto di denuncia, che era un elemento fondamentale dell’espressionismo? E quel contenuto di rivolta, sia pure anarcoide e caotica del primo surrealismo?”]. Sì, da un punto di vista strettamente culturale, è vero. Infatti il surrealismo gli arriva un po’ attraverso certe forme esteriori del surrealismo d’esportazione. Però non c’è nessun dubbio (ma qui bisognerebbe fare il discorso con i quadri alla mano) che ci sono degli elementi dell’espressionismo.
Per esempio in Gothic del 1944 c’è una figura con un braccio che alza il pugno, c’è una figura di un uomo che grida, in basso a destra c’è una figura a terra con una mano alzata, poi c’è quest’occhio che viene sempre fuori, tipico dell’espressionismo, c’è nelle trascrizioni di Picasso, nei massacri, ecc.
Nell’ultimo quadro da lui dipinto che si chiama Fragranza, e nessun critico l’ha detto, c’è un autoritratto. C’è la figura, c’è la testa, le mani, le spalle, il braccio, la bocca, i denti. Mi pare che questo quadro faccia pensare nella pittura piuttosto a un filone olandese. Mi riferisco a van Gogh e a Ensor. Sono i due pittori che si ritrovano in questo quadro, e c’è un elemento surrealista che gli viene da Lorca (egli lo chiama Fragranza e anche questo ha il suo significato). Vi ricordate quel poema di Lorca dove si parla del torero ucciso: il tuo cranio fiorisce, i fiori nascono dalla tua bocca. C’è un violento senso della morte e della vita, insieme, in questo quadro che mi affascina molto.
Vorrei riallacciarmi a quello che ha detto Micacchi. Micacchi dice: Pollock mi colpisce perché mi trova in uno stato di maggiore incertezza. A me capita il contrario. Jackson Pollock mi colpisce perché mi trova in uno stato di maggiore certezza. Forse perché non sono un critico, perché non vedo le cose da critico, ma attraverso la mia esperienza artistica, devo dire che per me l’apparizione di un pittore autentico, di un pittore che si slancia e si abbandona, è sempre un avvenimento in qualche modo positivo. Sarà negativo per quelli che non possono fare a meno di un modello da imitare. Per me, per il mio lavoro, non è negativo. La mostra di Pollock non solo mi è piaciuta ma mi ha anche aiutato. Mi ha insegnato qualche cosa. È evidente che io non mi metterò da stasera a dipingere a terra e a far sgocciolare il colore, perché presumo di non essere così stupido. Non sta in questo l’insegnamento di Pollock per me. Che cosa può insegnare un pittore a un pittore, in fin dei conti? Ti insegna che certe volte uno può buttare il cuore ancora più avanti; e questo, Pollock lo insegna […].